Il futuro dell’Europa

ALCIDE DE GASPERI

Non vi parlerò dell’Italia, ma dell’Europa e non dell’Europa di ieri e di oggi, ma dell’Europa di domani, di quell’Europa che vogliamo ideare, preparare e costruire. Che cosa s’intende fare quando si parla di una Federazione europea? Ecco all’ingrosso di che si tratta: di una specie di grande Svizzera, che comprende italiani, francesi e tedeschi: tutta gente divenuta pacifica, laboriosa e prospera. Ma taluno domanderà perché a proposito di questa impresa pacifica, si parla sempre di eserciti, di or­ganizzazione militare, di armamenti. Rispondo che così si presentano le cose nella storia. La Svizzera come è nata? Da una necessità di comune difesa. Gli Stati Uniti come sono nati? Da una guerra di indipendenza, da un ideale di libertà. Tutte le altre Confederazioni più o meno sono nate da questa esigenza reale di popoli che sentono la necessità di mettere insieme i lorosforzi per costruire qualcosa di nuovo e dare un assetto diverso alla loro vita comune e collettiva. Ecco perché non c’è nulla di strano che questa idea vada maturando, che questa possibilità si apra sull’orizzonte dell’avvenire e si apra proprio nel momento in cui si discute di armi, di riarmo, di necessaria difesa, di mettersi insieme per la difesa delle proprie libertà. Ma non bisogna confondere quella che è l’occasione, il mezzo, la via per la costruzione, cioè il punto di partenza, con la costruzione stessa, col nostro ideale.

Non è che vogliamo creare un’organizzazione di armati, un campo trincerato in cui sia sempre necessario stare in armi per difenderci. Nient’affatto. Cerchiamo di metterci insieme a difendere la nostra vita­lità, le nostre possibilità di sviluppo per scoraggiare i tentativi che pos­sono venire da qualsiasi parte per renderci impossibile questo sviluppo. Non è detto che questo sforzo debba durare eternamente, ma solo il periodo critico, superato il quale, questa impresa si svilupperà perma­nentemente nella nostra vita collettiva.

Sapete qual è la vera difficoltà di questa grossa impresa? È quella economico-finanziaria, poiché una vita comune federativa si fonda sopra un principio che è quello di pagare in proporzione alle proprie possibilità. Non si può fare un’eguaglianza assoluta in base al numero, ma bisogna contribuire proporzionatamente alle proprie possibilità cioè alla propria ricchezza. Naturalmente qualche popolo che ha più esperienze e meriti e che ha guadagnato unaw posizione più propspera è portato a difendere questo privilegio storico. Ma nella Federazione, allargandosi le possibi­lità, c’è un certo livello della fonte delle ricchezze e della possibilità di goderne.

Abbiamo un esempio pratico: prossimamente al Parlamento si co­mincerà a discutere il Piano Schuman per il carbone e l’acciaio. Questa è una questione grossa, anzi è più grossa di quello che si immagina. Si tratta di mettere insieme la produzione del carbone e dell’acciaio e poi distribuirne l’uso con una certa proporzionalità riguardo all’esigenza e ai bisogni. Più grave ancora è il problema quando si tratta di mettere insieme non già carbone, ma uomini armati, eserciti. Nessuna meraviglia che ci siano delle titubanze a buttarsi in una impresa nuova, mettendo in pe­ricolo acquisizioni già ottenute, e formare una struttura nuova, la quale evidentemente non può che fondarsi su strutture antiche ricostruendole in un tessuto nuovo. Le titubanze ci sono e sono giustificate. Non bisogna meravigliarsene. Tutte le cose nuove ci vengono attraverso uno sforzo, una gradualità, una volontà, ed è naturale che si trovino delle resistenze. Però bisogna notare che ci sono i perplessi per natura. Essi dicono: di queste cose nuove se ne sono viste tante nella storia. Questi perplessi sono gente che ragiona, che risponde a esigenze naturali, guidati dall’espe­rienza.

Ma ci sono pure gli avversari per principio, ci sono gli avversati i quali non possono vedere questo sviluppo di popoli liberi, che si uniscono insieme in base a principi democratici, con un senso di autogoverno; essi amano credere che l’ideale futuro sia una specie di militarismo sociale che deve fondarsi soprattutto su di una massa obbediente esecutrice, sopra immensi lavori che siano fatti comunque e comunque possano raggiun­gere una meta di uguaglianza, di ricchezza e di prosperità. Chi è abituato in un immenso impero si trova male entro le montagne della Svizzera; chi è abituato a un solo comando si trova male di fronte a dei popoli che discutono, a Parlamenti che passo passo contestano le novità. Si sentono male coloro che amano i grandi imperi, chiamateli totalitario o come volete. Tutti costoro trovano che questa novità è assolutamente rischiosa, inaccettabile, anticostituzionale, qualcosa che urta le acquisizioni della storia.

Ora io ho fatto questo quadro un po’, se volete, anticipando gli avvernimenti. Non abbiamo ancora presentato un piano generale, siamo ancora ai pilastri fondamentali intorno ai quali stiamo lavorando. Si comincerà con un periodo di transizione. I governi saranno qualli che sono, i Parlamenti saranno quelli che sono. Ci saranno alcuni ministri che si riunirrano, ci sarà una amministrazione comune con bilanci che andranno a confluire in una cassa comune. Entro questa amministrazione nascerà un’assemblea: si comincerà a discutere.

Voi direte: di nuovo Parlamenti, di nuovo chiacchiere, di nuovo perdita di tempo. Ebbene amici, questa è la verità! Bisogna scegliere: o parlare — parlare sempre troppo, ma in fondo parlare — discutere, fare appello alla ragione, fare appello alla capacità umana, oppure ricorrere alla forza, al comando, imporre la volontà di una persona. Questa è dittatura, quello è parlamentarismo. Difetti ne hanno tutt’e due; ma, fatti bene i conti, le teste è meglio contarle che decapitarle. Contarle vuoi dire il suggragio universale, decapitarle vuoi dire — se non nel senso fisico — imporre in realtà a tutte le teste di pensare come una.

Nel passato sono stati tanti i conflitti e le guerre per questa impos­sibilità di trovare l’accordo, di discutere, per l’impossibiltà di mettersi insieme in un’Assemblea e trattare di pace; non è meglio che facciamo uno sforzo per raggiungere la pace, per avere delle formule, per avere delle istituzioni che garantiscano questa pace?