Le trattative de Pace

ALCIDE DE GASPERI

Ho anzitutto l’obbligo di ringraziare l’onorevole Presidente di quest’Assemblea consultiva e il signor Presidente del Consiglio per l’autorevole appoggio morale che essi da questi banchi vollero dare alla mia missione a Londra. Essi si fecero veramente interpreti di un paese pieno di apprensioni e di ansie per il suo avvenire, di un paese ben consapevole delle responsabilità che dovevamo affrontare e delle difficoltà che colpe e risentimenti di un passato non nostro accumulavano contro di noi. In verità, non vi è stato forse mai, nella storia d’Italia, ministro degli esteri che in una conferenza mondiale potesse contare così poco sulle risorse della manovra o dell’abilità diplomatica o sugli argomenti della forza o della concorrenza internazionale.
Vi erano due soli argomenti che potevano dar forza al nostro discorso: l’uno che eravamo pronti a fare dei sacrifici per arrivare a un compromesso con la Jugoslavia su basi quanto più possibile giuste ed oggettive, l’altro che eravamo fermamente decisi a non accettare soluzioni che nessun Governo democratico in Italia avrebbe potuto firmare. (Vivissimi applausi).
Ho detto questo innanzi agli Alleati con tutta schiettezza e verità dichiarando che sapevamo d’infliggere con ciò involontariamente ai nostri fratelli italiani che restassero al di là della nuova frontiera una dolorosa ferita, ma che assumevamo tuttavia questa pesante responsabilità purché Fiume potesse riprendere la sua storica autonomia e Zara e altre minoranze avessero uno statuto di garanzie scolastiche, linguistiche e amministrative, quali noi intendiamo assicurare alle minoranze slave che rimanessero entro il nostro confine.
Voi avete notizia della decisione di massima del Consiglio dei Cinque: i sostituti sono incaricati di ricercare, anche con investigazioni sul luogo, una linea di frontiera che segua come criterio principale la linea linguistica e inoltre di organizzare a Trieste un regime del porto che abbia tutte le garanzie di un porto aperto a tutto il commercio internazionale.
Con ciò noi crediamo che siano stati fissati dei criteri che assicurano tutte le nostre esigenze vitali, cioè italianità di Gorizia e Trieste e degli altri centri abitati italiani, senza trascurare particolari esigenze economiche, che furono enunciate non solo nel mio discorso in Consiglio e nei memorandum della Delegazione, ma furono anche, a quanto ci consta, oggetto di considerazione e comprensione nei dibattiti che precedettero la decisione.
Che il porto di Trieste venga posto sotto controllo di tutti gli Stati interessati, era un postulato che io stesso avevo previsto, quando avevo parlato di franchigie e cooperazione internazionale nell’amministrazione dei porto, a condizione però che si elimini ogni concorrenza perniciosa fra Trieste e Fiume e si stabilisca un controllo sulla rete ferroviaria dello hinterland.
In quanto alla linea etnica gli americani dovrebbero avere negli archivi dello State Department i dati statistici raccolti nel 1918-19 dal maggiore Johnson per ordine di Wilson e che servirono appunto a tracciare la cosiddetta linea Wilson: queste statistiche ed altre nuove più recenti potranno appoggiare le ricerche locali.
Ho fatto appello nello stesso Consiglio e ho insistito con i ministri degli Alleati perché tali investigazioni si potessero fare in un clima di libertà e di mutua tolleranza fra le due nazioni e ho chiesto che la commissione da inviare sul luogo avesse anche l’incarico di intervenire perché si applicasse nella sua integrità l’accordo Alexander-Tito, si eseguissero i rimpatri previsti e venissero eliminate le disastrose conseguenze economiche della linea provvisoria di occupazione, che spezza in due un complesso economico-industriale, causando disoccupazione e miserie.
Da questo banco io rinnovo questo appello e lo rivolgo anche agli jugoslavi nella speranza che siffatta collaborazione di carattere sociale-umanitario sia come un’introduzione a quella cooperazione internazionale che i due popoli dovranno svolgere nel quadro della democrazia e della pace adriatica. (Vivi applausi).
La questione delle colonie è stata rimessa ai sostituti con la direttiva di porte per base un progetto americano (di cui non s’è pubblicato il testo) e di prendere in considerazione le vedute espresse dalle altre delegazioni.
Ho fatto rilevare nel colloquio con Byrnes (1) che a noi non si era offerto il modo di dire il nostro parere e il Segretario di Stato mi rispose che potevamo fare le nostre osservazioni in iscritto.
Lo abbiamo fatto e lo faremo in tutto questo periodo che ci separa dalle decisioni finali.
Il ministro Bidault (2) ha dichiarato apertamente nella stampa di non trovar giusto che ci si privi di tutte le nostre colonie e sappiamo che molti altri Stati delle Nazioni Unite sono di questo parere. Per noi il problema coloniale non è una questione imperiale, ma un problema di carattere sociale. (Approvazioni). Cinquant’anni di lavoro e di larghi investimenti non debbono andar perduti per i progressi del mondo; i 120.000 italiani della Libia, i 77.000 italiani dell’Eritrea non erano amministratori del lavoro altrui, almeno nella grande maggioranza, ma organizzatori del proprio lavoro.
Certo il popolo italiano, ricco delle sue braccia numerose, ha bisogno di altri sbocchi per la sua emigrazione, e li ha cercati e li cercherà nuovamente nel nuovo sforzo di ricostruzione del mondo. Ma è saggio organizzare la vita coloniale in Africa in modo da escluderne il popolo italiano o da rendergli più difficile il suo compito proprio nel momento in cui, per la corrente democratica che lo pervade, è il più disposto a preparare l’autogoverno coloniale? Noi siamo per voi, mi diceva recentemente il principe Karamanlis di Tripoli, perché sappiamo che, quando sarà venuto il momento, voi italiani sarete i meglio disposti per aiutarci a costituire un regime libero.
Un ricordo particolare alla mia simpatica sosta in Francia. Nel colloquio con il generale De Gaulle ho sentito la volontà di quel grande paese di fare una politica universalista e in particolare di amichevole collaborazione con noi. Ho fiducia che tale volontà reciproca ci farà superare le difficoltà di dettaglio che si presentassero e che il lavoro italiano sarà il vincolo più efficace della nostra amicizia. (Vive approvazioni). Devo anche constatare con piacere che le dicerie interessate che dipingevano la Francia come nostra antagonista circa il Brennero non hanno alcun reale fondamento. (Vivissimi applausi).
Amici, la via che dobbiamo seguire per giungere alla pace è ancora dura e piena di pericoli. Non ci facciamo illusioni, ma nemmeno ci lasceremo scoraggiare. Per usare un paragone di vecchio alpinista, ho l’impressione di aver passato con grande tensione di energia e di muscoli il primo camino; ma ce ne sono due o tre altri, prima di giungere alla cima.
Io credo, fermamente credo che ci arriveremo, se pur non si spezza la corda a cui siamo aggrappati, e questa è la corda della forza e della concordia del popolo italiano (Vivissimi, prolungati applausi).
Ho sentito in questi giorni, trovandomi in mezzo al mondo internazionale, che questa sola è la nostra forza: la forza del lavoro e della cultura italiana, associate nella consapevolezza della nostra particolare civiltà. Questo ho avvertito, tanto trovandomi nel salotto intellettuale di Londra, come in un campo di concentramento di prigionieri italiani che chiedono disperatamente di ritornare, come nello sforzo solidale dei miei collaboratori nelle varie ambasciate. Questo vogliamo affermare anche qui con un atto di fede, di risolutezza, di volontà.
Permettete infine che, in un momento in cui riprende la minaccia delle gelosie e delle avidità internazionali, questa povera ma sinceramente democratica Italia, elevandosi nella sfera dell’ideale, ricordi che tutti si sono impegnati a rinunziare a ingrandimenti territoriali, e ripeta, con richiamo al testamento di Roosevelt – e vorrei che la mia voce giungesse al di là dell’oceano – questa affermazione solenne: l’Italia riconosce che una pace giusta e feconda può essere fondata soltanto sui princìpi e sugli scopi per la realizzazione dei quali le Nazioni Unite hanno combattuto la guerra; ed in particolare sul rispetto del diritto internazionale, sulla fede nella dignità, nel valore e nei diritti della persona umana, e sull’aspirazione a che siano assicurate presso tutte le nazioni le libertà umane essenziali, cioè la libertà di parola, la libertà di religione, la libertà dal bisogno che garantisca una vita sana e pacifica agli abitanti di ogni paese, in ogni pane del mondo, e la libertà dal timore di ogni atto di aggressione da parte di qualsiasi paese contro qualsiasi altro.
Le quattro libertà!
Questa – ha detto Roosevelt nel momento di proclamarle – non è la visione di una utopia lontana. Facciamo che nessuno ne possa dubitare! (Vivissimi, generati, prolungati applausi – Moltissime congratulazioni).